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Un dipendente era ricorso contro la propria ditta adducendo di aver contratto, a causa delle mansioni espletate, una grave ipoacusia bilaterale. Lo stesso dipendente aveva invocato la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. per non aver la società ottemperato ai propri obblighi di salvaguardia e tutela della salute dei lavoratori, (omissione di dotazione delle cuffie antirumore) e aveva chiesto la condanna con risarcimento del danno biologico patito in conseguenza della infermità contratta.

Alla sentenza di condanna da parte della Corte di appello, la società interessata aveva opposto ricorso adducendo diversi motivi tra i quali la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 e 2087 c.c., in relazione al nesso di causalità tra la presunta condotta colpevole e la malattia del lavoratore (art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.). Nel ricorso si lamentava che la sentenza impugnata aveva ritenuto erroneamente di addossare sulla ditta “l’onere di provare l'(in)esistenza del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e la patologia denunciata dal lavoratore”.

Sulla questione aveva ricorso in Cassazione la ditta, alla quale la Cassazione Civile, Sez. Lav., con sentenza del 12 aprile 2016, n. 7125, ha negato la fondatezza del motivo, “posto che la Corte di merito ha ritenuto provato, dalle testimonianze escusse e dalle altre circostanze di causa, ivi compresi gli accertamenti peritali, la morbigenità dell’ambiente di lavoro denunciata dal lavoratore, ed il nesso causale tra esso e la patologia lamentata dal lavoratore”.

Fra gli altri motivi non accolti dalla Cassazione si deve aggiungere che la Corte di merito aveva accertato che per un lungo lasso di tempo (1985-1992) il lavoratore interessato aveva “svolto le sue mansioni di motorista su motonavi non dotate di ‘control room’ e che dalle testimonianze raccolte era emerso che sino al 1988 gli addetti alla sala motori non erano dotati di cuffie antirumore”.

A questo proposito la Cassazione afferma che “deve in ogni caso evidenziarsi che l’ipotetica obsolescenza dei d.p.i., ovvero l’utilizzo di altri sistemi (es. control room) non elimina certamente l’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., che per il suo carattere di norma di chiusura del sistema protettivo …. impone comunque all’imprenditore di adottare tutte le misure che secondo l’esperienza e la tecnica siano in grado di tutelare e garantire l’integrità psico fisica del lavoratore, restandone quindi esclusi solo gli atti e comportamenti abnormi ed imprevedibili del lavoratore, idonei ad elidere il nesso causale tra le misure di sicurezza adottate e l’eventuale danno realizzatosi”.

 

FONTE: QUOTIDIANO SICUREZZA

Il principio emanato dalla Corte di Cassazione in questa sentenza si riferisce alla mancata verifica da parte del datore di lavoro della idoneità dei dispositivi di protezione  individuale forniti al lavoratore ma si applica in realtà a tutti i presidi antinfortunistici messi a disposizione dei lavoratori stessi. L’imprenditore, ha sostenuto in essa la suprema Corte, è gravato dall’obbligo di verificare il rispetto effettivo nelle norme antinfortunistiche ricorrendo, se del caso, anche a sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori che non si adeguano in concreto alle disposizioni prevenzionali. La nozione di idoneità del dispositivi di protezione individuale di cui all’art. 18 comma 1 lettera d) del D. Lgs. n. 81/2008 implica infatti, ha precisato la Corte di Cassazione, l’esercizio di una costante verifica  da parte del datore di lavoro, in collaborazione con il lavoratore,  relativa allo stato di usura e di effettivo impiego degli stessi dispositivi antinfortunistici.

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in cassazione

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale, ha rideterminato le pene originariamente inflitte all’amministratore di una società agricola committente ed al datore di lavoro di una ditta appaltatrice riducendo la misura della provvisionale liquidata in favore della costituita parte civile e confermando il resto.

 

All’amministratore della società agricola committente era stato ascritto il reato di lesioni colpose in quanto, per colpa consistita nella violazione delle norme di cui all’art. 63 del D. Lgs n. 81/2008, aveva messo a disposizione e aveva fatto utilizzare al personale dipendente una scala metallica non conforme ai prescritti requisiti, cagionando così a un dipendente della ditta appaltatrice delle lesioni personali con malattia della durata di 111 giorni. Al datore di lavoro della ditta appaltatrice era stato addebitato, invece, di avere cagionato al dipendete le lesioni personali subite per non avere valutato i rischi da scivolamento e caduta del lavoratore stesso che utilizzava la scala per immettersi nella sala di mungitura e per non avere fornito altresì al dipendente infortunato i necessari dispositivi di protezione individuale, quali le scarpe antinfortunistiche oltre a non averlo formato circa i rischi derivanti dalle mansioni svolte.

 

Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati. Il datore di lavoro, da parte sua, ha sottolineato che la Corte distrettuale aveva, in realtà, soltanto presunto che le scarpe fossero prive dei requisiti richiesti dalla normativa e che in atti è risultato che al lavoratore fossero stati consegnati appositi stivali, successivamente danneggiatisi, evidenziando che lo stesso lavoratore ha riferito che, a seguito della rottura degli stivali consegnati dalla ditta, ne aveva acquistati di nuovi. Il datore di lavoro ha inoltre sostenuto di non essere tenuto ad informarsi sullo stato dei dispositivi di protezione individuale di ogni dipendente. Con riferimento, invece, alla mancanza di formazione erogata ai dipendenti, lo stesso datore di lavoro ha rilevato che la Corte di Appello ha riportato in modo inesatto il contenuto delle prove dichiarative ed ha ignorato, altresì, la deposizione di un teste che aveva riferito che un primo corso di formazione era stato effettuato. Rispetto poi alle rilevate carenze del documento di valutazione dei rischi, il datore di lavoro ha fatto presente di avere designato appositi dirigenti quali responsabili della sicurezza, che era stata incaricata una società per occuparsi della sicurezza e che l’infortunio era avvenuto nei locali di una azienda diversa dalla sua per cui l’evento era avvenuto fuori dalla sua posizione di garanzia.

 

Con un secondo motivo il datore di lavoro ha rilevata una erronea applicazione della legge penale, in riferimento agli artt. 40 e 41 cod. pen., con riguardo alla ritenuta riferibilità causale dell’evento lesivo alla condotta dallo stesso posta in essere. Il rischio di scivolamento, ha sostenuto infatti, era noto ai lavoratori, a prescindere dalla circostanza che lo stesso risultasse menzionato nel documento di valutazione dei rischi, ed ha fatto inoltre notare che la Corte territoriale si era limitata a rilevare che il dipendente infortunato non sarebbe scivolato, se avesse avuto le scarpe antinfortunistiche, che il lavoratore aveva reso dichiarazioni contraddittorie rispetto alla dinamica del sinistro, con riguardo ai profili di imprudenza che caratterizzano le modalità di discesa dalla scala e che comunque il datore di lavoro è esonerato da responsabilità, laddove il comportamento del dipendente presenti i caratteri della eccezionalità, rispetto al procedimento lavorativo, tali da costituire fattore eccezionale idoneo ad interrompere il nesso causale. Il ricorrente ha fatto rilevare, infine, che il lavoratore infortunato è stato l’unico dipendente al quale è occorso un sinistro nell’utilizzare la scala, evenienza questa ritenuta indicativa del suo errato comportamento per essere sceso dando le spalle alla scala.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto entrambi i ricorsi inammissibili. Con riferimento, in particolare, al ricorso del datore di lavoro ed alla consegna da questi fatta dei dispositivi di protezione individuale la suprema Corte ha fatto notare che la Corte di Appello ha chiarito che dalla documentazione acquisita agli atti non era risultata la consegna di scarpe antinfortunistiche ma, genericamente, di stivali e che, solo successivamente al sinistro, la ditta aveva messo a disposizione dei dipendenti tutta la dotazione antinfortunistica completa. La Corte di Appello ha inoltre considerato che la parte offesa ha riferito che, a seguito della rottura dei predetti stivali, lo stesso dipendente aveva provveduto a comprarsi delle scarpe ed ha del tutto legittimamente osservato che il datore di lavoro è tenuto a sostituire i presidi di protezione individuale, soggetti ad usura.

 

Sul punto, ha così proseguito la Sez. IV, è appena il caso di considerare che l’art. 18, comma 1, lett. d) del D. Lgs. n. 81/2008, prevede espressamente che il datore di lavoro fornisca ai lavoratori i “necessari ed idonei” dispositivi di protezione individuale, che la nozione di idoneità implica, in osservanza di un elementare canone di effettività dell’azione precauzionale, l’esercizio di una costante e doverosa verifica, da parte del datore, in collaborazione con il lavoratore, relativa allo stato di usura e di effettivo impiego degli stessi presidi antinfortunistici di cui i dipendenti siano stati dotati. Da tempo, del resto, la Corte Suprema ha chiarito che “il controllo che il datore di lavoro deve esercitare sull’operato dei dipendenti, perché non si verifichino infortuni sul lavoro, non può risolversi nella messa a disposizione dei presidi antinfortunistici e nel generico invito a servirsene; e che l’imprenditore è gravato dell’obbligo di verificare il rispetto effettivo delle norme antinfortunistiche, ricorrendo, se del caso, anche a sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori che non si adeguino, in concreto, alle disposizioni prevenzionali”.

 

Con riguardo poi alla designazione fatta dal datore di lavoro di appositi dirigenti quali responsabili della sicurezza  la Corte di Appello aveva fatto notare che, diversamente da quanto affermato dal ricorrente, non è risultato nel caso in esame il conferimento di alcuna delega di funzioni da parte del datore di lavoro. La mera nomina del responsabile del servizio di protezione e prevenzione, ha infatti affermato la Sez. IV, non esclude gli obblighi di vigilanza e controllo gravanti sul datore. Il responsabile del servizio di protezione ha infatti, ha così proseguito la Corte di Cassazione, una funzione di ausilio e non sostitutiva degli obblighi gravanti sul datore di lavoro nella individuazione dei fattori di rischio, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e formazione dei dipendenti.

 

Con riferimento quindi al comportamento non corretto del lavoratore la suprema Corte ha fatto notare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Sul punto la Corte suprema ha precisato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni e ha affermato che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità ed ha affermato altresì che può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento. Deve considerarsi abnorme, in definitiva, il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.

 

La Sez. IV, infine, ha fatto osservare che il lavoratore infortunato non disponeva di vere e proprie calzature antinfortunistiche; che era sceso dando le spalle alla scala sita presso l’azienda agricola, così riducendo ulteriormente la già ridotta portata della pedata utile di ciascun gradino, che l’infortunato teneva in mano degli oggetti, al momento della discesa e che tale comportamento, se pure non prudenziale, era stato causato proprio dalle carenze formative ed informative sopra evidenziate, riferibili al datore di lavoro rispetto alle mansioni svolte dai dipendenti dell’impresa con la precisazione che si trattava di comportamenti posti in essere anche in precedenza, sia dall’infortunato che da altri dipendenti.

 

FONTE: PUNTO SICURO

Una sentenza questa della Corte di Cassazione che fa riferimento all’ obbligo da parte del datore di lavoro di formare adeguatamente i lavoratori nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L’attività di formazione dei lavoratori, ha infatti precisato la suprema Corte, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. Il suo apprendimento di fatto e la sua esperienza non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno fatte nelle modalità indicate dalla legge.

Il fatto e l’iter giudiziario

Il Tribunale ha dichiarato il datore di lavoro e un lavoratore di un’azienda responsabili del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione di norme in materia di infortuni sul lavoro in relazione alla morte di un altro lavoratore, fratello del secondo imputato, deceduto per le gravi lesioni riportate a seguito dell’abbattimento di un albero (un abete bianco alto circa 26 metri) che lo ha investito nel corso delle operazioni di diradamento di un bosco che i due fratelli stavano svolgendo, alle dipendenze dell’impresa della quale l’altra imputato era legale rappresentante. Quest’ultima è stato, inoltre, ritenuta responsabile anche delle contravvenzioni in materia di infortuni sul lavoro.

Il giudice di primo grado ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati sulla base della perizia svolta in sede di incidente probatorio, delle consulenze tecniche del C.T. eseguite su incarico del P.M. e dai periti di parte, che, sostanzialmente, avevano ricostruito in modo conforme il verificarsi del sinistro, nonché sulla base della documentazione acquisita e delle testimonianze assunte in dibattimento. I testimoni di polizia giudiziaria, secondo il Tribunale avevano riferito che fin dai primi accertamenti era emersa evidente l’imperizia del lavoratore imputato che, nel procedere al taglio della pianta, non aveva proceduto secondo la tecnica corretta, aveva utilizzato una motosega in pessime condizioni, non aveva predisposto le vie di fuga, non aveva praticato un taglio direzionale nell’albero, così detta cerniera, che consente la caduta controllata della pianta.

Quanto alla posizione del datore di lavoro erano stati individuati diversi profili di colpa per non aver fornito ai dipendenti l’attrezzatura necessaria per l’esecuzione, con le corrette modalità, dei tagli forestali e per l’atterramento delle piante rimaste impigliate, per avere omesso, inoltre, di formare ed informare adeguatamente i dipendenti in particolare sulle distanze di sicurezza tra gli operatori, sui rischi connessi alla presenza di piante impigliate e, infine, per avere omesso di porre in essere una adeguata attività di controllo e vigilanza del cantiere, vigilanza che avrebbe consentito di rilevare la condizione di pericolo che si era venuta a determinare e di intervenire per scongiurare i rischi esistenti.

La Corte d’appello, a seguito del ricorso proposto dai due imputati, ha mandato assolto il lavoratore confermando, invece, l’affermazione di responsabilità del datore di lavoro in ordine alla contestazione di omicidio colposo, ritenendo infondati i motivi posti a base del suo appello e dichiarando l’estinzione per intervenuta prescrizione dei reati contravvenzionali.

In particolare, quanto alla assoluzione del lavoratore secondo la sentenza di primo grado, l’evento letale sarebbe stato provocato dalla caduta diretta di una pianta di abete che l’imputato stava tagliando, mentre la Corte d’appello ha ritenuto che gli elementi di prova acquisiti non potevano essere considerati tali da escludere un ragionevole margine di incertezza e, quindi, che non si potesse escludere che la morte del lavoratore infortunato fosse stata determinata dalla caduta improvvisa di un albero precedentemente tagliato e rimasto sospeso perché imbrigliato tra gli altri circostanti (il lavoratore imputato aveva sostenuto che l’albero che era caduto sul fratello fosse stato tagliato in precedenza dallo stesso infortunato e fosse rimasto impigliato nella chioma degli alberi vicini). Sulla base di questa differente ed alternativa ricostruzione del fatto la Corte di Appello aveva ha assolto il lavoratore imputato per insufficienza di prove a suo carico e aveva, invece, ritenuto che l’incertezza sulla dinamica dell’incidente accaduto fosse indifferente all’accertamento della responsabilità del datore di lavoro.

Il ricorso in cassazione e le motivazioni

Il datore di lavoro ha ricorso per cassazione adducendo delle motivazioni. Con riferimento in particolare alla colpa allo stesso addebitata e cioè la ritenuta genericità del documento di valutazione dei rischi da esso predisposto lo stesso ha sottolineato di non essere obbligata ex lege a redigere tale documento poiché al tempo del tragico infortunio aveva soltanto cinque dipendenti assunti regolarmente, il che significava che l’azienda rientrava in quella particolare categoria esentata dall’art. 4 comma 11 del D. Lgs n. 626/94, in vigore all’epoca dei fatti, dal redigere il DVR essendo, invece, unicamente tenuto ad effettuare una autocertificazione della valutazione dei rischi e un adempimento degli obblighi ad essa correlati. Per cui, sulla base di tale considerazione, era del tutto erroneo, secondo il ricorrente, attribuire un coefficiente di colpa specifica alla sua condotta  sulla base della genericità di un documento che quella particolare categoria di datore di lavoro non era tenuto a redigere, sviluppare e conservare.

Quanto all’addebito consistito nella mancata formazione ed informazione dei dipendenti sui rischi specifici derivanti dal taglio di alberi, il ricorrente aveva rilevato un altro vizio della motivazione per contraddittorietà essendo stato dimostrato che gli obblighi di informazione del datore di lavoro erano stati assolti, e ha fatto osservare, altresì, che anche nel caso in cui si fosse voluto ritenere il contrario, non si sarebbe potuto fondatamente ritenere la sussistenza di un nesso eziologico fra l’omissione colposa ed il decesso del lavoratore. Trattandosi di rischio non preciso, è la stessa giurisprudenza di legittimità, ha sostenuto, ad affermare che in tal caso ricorre l’affidamento del datore di lavoro sul comportamento diligente del lavoratore.

Quanto alla contestata culpa in vigilando, la Corte di Appello, secondo la ricorrente, è caduta parimenti in errore essendo stato sufficiente fare una corretta applicazione dei principi espressi dalla Corte di legittimità con riferimento ai rapporti tra datore di lavoro e delegato alla sicurezza, sulla base dei quali si può affermare che, in materia di infortuni sul lavoro, l’obbligo di prevenzione, assicurazione e sorveglianza del datore di lavoro non impongono al datore il controllo momento per momento delle modalità di svolgimento delle lavorazioni.

Le decisioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati i motivi posti alla base del ricorso che ha pertanto rigettato. Con riferimento in particolare alla contestata mancata valutazione dei rischi che ha portato all’infortunio, la suprema Corte ha fatto presente che il rischio di cui trattasi non era stato assolutamente previsto neanche da quella autocertificazione alla quale ha fatto riferimento il datore di lavoro. Tale documento, infatti, è risultato essere “carente in molti suoi aspetti” non avendo analizzato elementi fondamentali delle operazioni di taglio e di esbosco. Fra gli elementi non presi in considerazione c’è stata la mancata valutazione del rischio specifico di intercettazione delle piante in caduta da parte di altre piante dalla cui analisi sarebbero potute scaturire delle misure organizzative del cantiere tali da prevenire e gestire eventuali criticità. In definitiva, come rilevato dalla Corte di Appello, non esistevano tassative prescrizioni in materia di sicurezza che fossero state imposte dal datore di lavoro e alla cui costante osservanza i lavoratori fossero stati debitamente addestrati.

Con riferimento poi alla osservazione avanzata dal ricorrente sulla comprovata esperienza del lavoratore infortunato e del fratello imputato come boscaioli di comprovata esperienza pluriennale nel disboscamento di alberi di alto fusto già prima di essere assunti, la Corte di Cassazione ha tratteggiato i contorni ed i contenuti dell’obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Questi, ha infatti sostenuto la Sez. IV, ha l’obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto. A ciò va aggiunto, ha così proseguito, che il D. Lgs. n. 626 del 1994, al quale occorre fare riferimento ratione temporis, all’art. 3, comma 1 lett. s) ha posto la “informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro” tra le misure generali di tutela, distinguendole peraltro dalla diversa ed ulteriore misura generale costituita dalle “istruzioni adeguate ai lavoratori“.

Il profilo normativo dell’attività di formazione che il datore di lavoro deve assicurare, ha così proseguito la suprema Corte, permette di evidenziare il principio secondo il quale “in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l’attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro”.La Corte suprema ha evidenziato altresì che l’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno compiute nella cornice formalizzata prevista dalla legge“.

Nel caso in esame, pertanto, ha così concluso la suprema Corte, la prova dell’assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi data dalla dedotta circostanza che i due fratelli avevano pregresse esperienze per avere esercitato l’attività di taglio di alberi di alto fusto nel loro paese d’origine per cui la decisione assunta dalla Corte di Appello è da considerarsi corretta.

 

FONTE: PUNTO SICURO

Il Tribunale di B. aveva dichiarato in primo grado responsabili del reato di cui all’ art. 590 commi 2 e 3 cod. pen. un datore di lavoro in quanto direttore tecnico dello stabilimento con delega specifica in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e il Rspp in quanto avevano causato, per colpa, a un lavoratore dipendente lesioni personali gravi con conseguente incapacità di attendere alle ordinarie.

La colpa del datore di lavoro è consentita nella violazione degli artt. 28 comma 2 lettera b) e d) del TU 81/08, in quanto il documento di valutazione dei rischi non conteneva l’indicazione delle misure e procedure di prevenzione e di protezione concrete ed efficaci per le attività di carico e scarico dei cilindri di grosse dimensioni dalle macchine utensili per ogni turno lavorativo e non conteneva inoltre, l’indicazione delle misure idonee a ridurre al minimo i possibili rischi di investimento dei pesanti carichi sospesi, trattandosi di attività pericolosa comportante gravi rischi di investimento per gli operatori.

La sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, 13 gennaio 2016, n. 1036 rileva che “i giudici di merito hanno dato conto della insufficienza del divieto imposto ai dipendenti nel documento di valutazione dei rischi di guidare con le mani i carichi sospesi non accompagnato da alcuna indicazione in positivo sul come agire in quella situazione”. Ciò equivaleva, per i giudici, a segnalare il pericolo senza però spiegare come ci si dovesse comportare per evitarlo nell’eseguire la lavorazione”.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha anche sottolineato un altro elemento incompatibile…. la mancata presenza del datore di lavoro in cantiere che non avrebbe mai potuto sperimentare personalmente l’esistenza del problema di impercettibili oscillazioni” nelle strutture operative che avrebbero causato il danno oggetto di sentenza e di successivo ricorso.

Sulla nullità della sentenza di condanna la Cassazione ha deciso per “violazione di legge, in relazione all’art. 27 Cost., agli artt. 40, comma 2 e 43, cod. pen., e agli artt. 15, lett. b), 17 e 28 del TU 81/08 ma anche con riferimento dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per contraddittorietà della motivazione, in relazione all’estensione dell’obbligo impeditivo in capo al datore di lavoro delegante in tema di causalità omissiva e all’estensione delle disposizioni cautelari applicabili ai fini del rimprovero per colpa”.

Il datore di lavoro, inoltre, “nell’imporre uno specifico divieto a scopo antinfortunistico, senza fornire quindi istruzioni alternative, non poteva non avvedersi del fatto che veniva in sostanza devoluto agli stessi lavoratori (come era avvenuto nel fatto in questione) scegliere la maniera con cui ovviare alle problematiche connesse al lavoro da svolgere”. Infatti, i lavoratori, perché non erano stati messi loro a disposizione strumenti alternativi, avevano deciso di contravvenire a quel divieto.

“Ugualmente illogica sarebbe la motivazione laddove affermasse che la comprovata effettività della delega di funzioni al Rspp “ non inciderebbe in alcun modo sul percorso logico che porta all’affermazione della responsabilità del datore di lavoro.

Su quest’ultimo argomento la Corte ribadisce principi più volte espressi. “Il Rspp è un mero ausiliario del datore di lavoro privo di autonomi poteri decisionali e non è dunque destinatario degli obblighi dettati dalla legge in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle sanzioni, penali e amministrative, previste per la loro violazione. Ciò non esclude peraltro secondo il richiamato dictum la sua responsabilità penale per l’infortunio conseguito alla mancata adozione di una misura prevenzionale, qualora si accerti che lo stesso abbia indotto il datore di lavoro all’emissione, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale”.

 

FONTE: QUOTIDIANO SICUREZZA

 

L’articolo 18 c. 1 lett. b) del D.Lgs.81/08 prevede che il datore di lavoro (o il dirigente) abbia l’obbligo di “designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza”.

Ai sensi dell’articolo 37 c. 9 del medesimo decreto, inoltre, “i lavoratori incaricati dell’attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave ed immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza devono ricevere un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico […]”. 

Il Decreto 626/94, ormai abrogato, a sua volta prevedeva disposizioni analoghe (per cui si applica un principio di continuità normativa).

Il tema della designazione e della formazione della squadra antincendio e di gestione delle emergenze è stato oggetto negli anni di alcune interessante sentenze di Cassazione Penale. Vediamone una breve (e come sempre non esaustiva) selezione, partendo dalle pronunce più risalenti nel tempo fino ad arrivare a quelle più recenti.

La designazione della squadra antincendio deve essere “effettiva” e “non solo formale”; addetti antincendio ignari del ruolo assegnato e non formati: Cass. Pen., Sez. III, 13 settembre 2005 n.33288

Il tema della designazione e della formazione “effettiva” e “non formale” della squadra antincendio è stato oggetto della pronuncia n. 33288 del 13 settembre 2005della Terza Sezione Penale della Cassazione, sentenza in cui la Corte ha preso in analisi la condotta dell’amministratore delegato di una società per azioni il quale “non aveva provveduto a nominare la squadra antincendio” violando così l’art. 12 comma 1 lett. b) del D.Lgs. 626/94, allora in vigore.

In particolare ciò che veniva contestato a tale soggetto era il fatto che l’obbligo di designazione e formazione dei componenti della squadra antincendio fosse stato adempiuto in termini solo formali e non sostanziali, in quanto “nel documento contenente i nominativi della squadra antincendio non erano indicati i compiti dei componenti della stessain caso di incendio e in generale di emergenza né risultava alcuna prova che ad essi fosse stata data comunicazione della loro designazione a tale ruolo.”

Inoltre ai componenti della medesima squadra non era stata erogata alcuna formazione e preparazione specifica.

In attuazione del noto principio di effettività, la Cassazione aveva precisato che “per adempiere all’obbligo di designazione in questione, non può certamente ritenersi sufficiente una indicazione meramente formale, ma occorre anche, quanto meno, che i lavoratori indicati come componenti di tale squadra abbiano avuto notizia di fame parte, ossia siano stati innanzitutto informati di essere componenti della squadra antincendi e di avere quindi il compito di svolgere determinate attività in caso di pericolo, e che occorra altresì che siano stati individuati e precisati i compiti assegnati ai soggetti nominati e che gli stessi siano adeguatamente preparati all’incarico loro affidato”.

Nel caso in specie, invece, gli addetti incaricati alla gestione delle emergenze “non erano a conoscenza di far parte della squadra antincendi, con la conseguenza che, in caso di pericolo, non si sarebbe potuto presumere che essi si attivasseroper assolvere ai compiti che da tale nomina derivavano”,considerato che “il datore di lavoro si era limitato esclusivamente ad inserire nella scheda relativa al gruppo di primo intervento i nomi del direttore tecnico, del capo manutenzione e del magazziniere, senza appunto nemmeno informare i detti soggetti, specificare i loro compiti in caso di pericolo e fornire loro una adeguata preparazione, sicché, se pure di nomina di una squadra antincendi si potesse parlare, si sarebbe comunque trattato di una nomina puramente formale e fittizia,e la semplice predisposizione della scheda non poteva certamente costituire adempimento dell’obbligo in questione”.

Incendio in un hotel con 350 posti letto e centinaia di clienti ospitati provoca la morte di tre persone: piano di emergenza disatteso perché “la notte in cui accaddero i fatti non era in servizio alcuno dei componenti della squadra di emergenza, bensì solo il portiere ed un facchino.”Cass. Pen., Sez. IV, 6 giugno 2011 n.22334.

In Cassazione Penale, Sez. IV, 6 giugno 2011 n. 22334 troviamo descritto il seguente caso: a  seguito di un incendio scoppiato in un hotel, erano stati condannati l’amministratrice e legale rappresentante della società per azioni proprietaria dell’albergo, l’amministratore di fatto di tale società (rispetto a cui la Cassazione aveva disposto l’annullamento con rinvio della pronuncia d’appello) e la direttrice dell’albergo e capo della squadra di emergenza aziendale per aver provocato la morte di tre persone.

La sentenza descrive così la dinamica dell’incendio: nel corso della notte due giovani donne statunitensi ospiti dell’hotel inavvertitamente svuotavano nel cestino dei rifiuti un portacenere con alcuni mozziconi accesi, generando fiamme che innescarono l’incendio dell’edificio.

Mentre la maggior parte degli ospiti era riuscita a salvarsi attraverso le uscite di sicurezza, un uomo perse la vita nel tentativo di calarsi a terra dal balcone della sua stanza facendo uso di lenzuola annodate ed altre due persone vennero meno all’interno del bagno nel quale si erano rifugiate.

Il fuoco sviluppatosi dalla stanza delle ragazze era stato alimentato dall’apertura delle porte delle stanze e dalle correnti d’aria e si era propagato in modo diffusivo. L’incendio aveva altresì dato luogo alla propagazione di fumo attraverso i cavedi destinati ai passaggi dell’impiantistica.

La ricostruzione effettuata dalla Corte d’appello aveva accertato che dopo l’attivazione dell’impianto di allarme un facchino dell’hotel si era recato all’ingresso della stanza in questione, era ridisceso nella reception e subito dopo era risalito al piano. Tale condotta venne tenuta circa nove minuti dopo l’inserimento dell’allarme.

Precedentemente all’evento era stato redatto un piano di emergenza del grand’hotel sottoscritto dall’amministratore unico e legale rappresentante nonché dall’RSPP in attuazione di quanto previsto dalla normativa ministeriale in ordine alla sicurezza antincendio delle strutture ricettive.

Questo piano prevedeva la costituzione di una squadra di emergenza antincendio composta da 24 persone munite di apposito patentino, rilasciato dopo la frequentazione di corso di addestramento antincendio. Caposquadra era la direttrice dell’albergo e, in sua assenza, un vice caposquadra.

Queste le parole della Cassazione, che richiama quanto accertato dalla Corte d’Appello: “si è appurato che la nottein cui accaddero i fatti non era in servizio alcuno dei componenti della squadra di emergenza, bensì solo il portiere ed un facchino. Dunque, il piano era stato sostanzialmente disatteso.

Ciò ha impedito di fronteggiare adeguatamente e tempestivamente il focolaio di incendio; cosa che avrebbe potuto essere fatta ad esempio attraverso la chiusura della porta della stanza lasciata aperta dalle due ospiti dopo la loro fuga, nonché di quelle delle altre stanze.

D’altra parte, sia il portiere che il facchino erano privi delle cognizioni e dell’addestramento posseduti dai componenti della squadra di emergenza: ciò spiega perché da parte di costoro non fu adottata alcuna idonea iniziativa.

D’altra parte, la presenza di personale qualificato avrebbe anche consentito di utilizzare tempestivamente gli strumenti in dotazione dell’albergo cioè gli idranti e gli estintori, tanto più che l’albergo era conforme ai requisiti di sicurezza previsti dalla legge. In altri termini, prosegue la Corte, vi erano tutte le condizioni per neutralizzare l’avvio delle fiamme impedendo così che il fuoco si sviluppasse e coinvolgesse l’intero edificio.”

Peraltro “i termini per l’adeguamento degli arredi alla normativa antincendio non erano spirati e quindi non si configurava un obbligo a carico della proprietà e dei responsabili della gestione della struttura. La struttura stessa era inoltre, nel complesso, conforme ai requisiti di sicurezza antincendio;e munita di valide strutture come una rete di idranti antincendio e di estintori ritenuti idonei, efficienti e conformi alla normativa.

L’unico profilo di colpa rilevanteviene ritenuto invece la mancanza di componenti della squadra di emergenza antincendio il cui coordinamento era stato affidato all’imputata.

L’assenza di personale qualificato ha impedito che venissero tempestivamente adottate le già indicate misure per lo spegnimento delle fiamme.

Circa i profili causali della vicenda la pronunzia considera che la notte in cui accaddero i fatti un grande albergo con circa 350 posti letto e con centinaia di clienti ospitati non era presidiato da alcun componente della squadra di emergenza, ma solo da due dipendenti completamente inesperti.

Le omissioni hanno avuto rilievo causale in relazione al decesso dei tre ospiti. Due di essi, che si trovavano al quinto piano, furono rinvenuti all’interno del bagno dopo che erano una prima volta usciti dalla stanza e che vi erano poi rientrati precipitosamente a causa del fumo ormai denso che aveva invaso il corridoio. L’altro ospite, come riferito dalla moglie sopravvissuta, tentò di calarsi dalla finestra mediante lenzuola annodate, seguendo l’esempio di altri ospiti ma precipitò su uno dei balconi al primo piano riportando lesioni letali.”

La Corte osserva “che è normalmente prevedibile che persone colte di sorpresa nel sonno da un incendio e da imponente e denso fumo possano essere sopraffatte dal panico tentando di sottrarsi al rischio ponendo in essere manovre disperate. A tali considerazioni la stessa Corte aggiunge che proprio l’assenza di componenti della squadra di emergenza impedì che venissero adottate iniziative efficaci per la evacuazione degli ospiti come del resto previsto dal piano di sicurezza.

E’ infatti emerso che uno dei due già indicati dipendenti si limitò a salire due volte al terzo piano ma neppure ai piani superiori. Gli ospiti di tali piani furono perciò abbandonati a loro stessi e le vittime, senza adeguate istruzioni per scampare al pericolo, tentarono di sottrarvisi con comportamenti loro suggeriti dalla situazione di pencolo generalizzato. In conseguenza non si tratta per nulla di comportamenti straordinari od imprevedibili considerata anche la situazione di indotta dall’emergenza.”

Mancata formazione degli addetti antincendio in un albergo: Cass. Pen., Sez.III, 12 gennaio 2012 n.626

Tornando ancora sul tema degli alberghi in relazione alla squadra antincendio e di gestione delle emergenze, Cassazione Penale, Sez.III, 12 gennaio 2012 n. 626 conferma la condanna del legale rappresentante di una società che gestiva delle strutture alberghiere condannato “per non aver formato adeguatamente il personale incaricato dell’attività di prevenzione incendi e salvataggio, di pronto soccorso e comunque di gestione della emergenza.”

La sentenza ricorda che “direttore delle strutture alberghiere e incaricato dalla società, in effetti presente anche al sopralluogo […] aveva avuto modo di precisare che il Ri. [il legale rappresentante, n.d.r.] insieme a lui aveva seguito i corsi di formazione per datore di lavoro e non quelli del personale per la lotta antincendio.”

Mancata informazione ai lavoratori sulle procedure di emergenza, mancata formazione degli addetti antincendio e mancata elaborazione del documento di valutazione del rischio incendio:Cass. Pen. Sez. III, 30 settembre 2015 n. 39363

Il legale rappresentante della Srl che gestiva un pub è stato condannato dal Tribunale di Milano per avere:

“- omesso di assicurare ai lavoratori adeguate informazioni in merito alle procedure di emergenza (art. 36 comma 1 in relazione all’art. 18 comma 1 lett. l e 55 comma 5 lett. c D. Lgs. n. 81/2008, contestato al capo A);

– omesso di provvedere affinché i lavoratori incaricati alle attività di emergenza antincendio ricevessero una formazione all’uopo adeguata (art. 37 comma 9 in relazione all’art. 18 comma 1 lett. I e 55 comma 5 lett. c D. Lgs. n. 81/2008, contestato al capo B);

– omesso di aggiornare/elaborare il documento di valutazione del rischio incendio e/o esplosione (art. 17 comma 1 lett. a e 55 comma 4 D. lgs n. 81/2008, contestato al capo C).”

In particolare, “il Tribunale ha motivato la decisione sulla base del verbale redatto dai Vigili del Fuoco in occasione del sopralluogo eseguito nel Pub gestito dalla società”.

Il Giudice aveva accertato che “l’imputato, nella veste di legale rappresentante della società che gestiva il Pub aveva omesso di effettuare la prescritta attività di formazione/informazione dei lavoratori dipendenti riguardo alle procedure di emergenza, né che avesse effettuato tali attività nei riguardi dei lavoratori incaricati delle attività di emergenza antincendio, con ciò integrando le contravvenzioni di cui agli artt. 36 e 37 D. Lvo n. 81/2008. Ha rilevato che successivamente le prescrizioni impartite risultavano adempiute.”

La “documentazione prodotta dall’imputato” era la seguente: “un attestato, peraltro privo della firma dei partecipanti, di un corso tenutosi il 21.3.2012, quindi in epoca successiva all’accertamento”,  svolto in “ottemperanza delle prescrizioni” laddove “nulla si diceva in ordine allo svolgimento di corsi nel periodo anteriore all’accertamento.”

Secondo la Cassazione, il percorso argomentativo del Tribunale, “fondato su un tipico accertamento in fatto (le risultanze dell’ispezione effettuata dai Vigili del Fuoco), si rivela […] corretto perché l’art. 36 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 […] prevede appunto l’informazione ai lavoratori “sulle procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei luoghi di lavoro”, mentre l’art. 37 comma 9 prevede che “i lavoratori incaricati dell’attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave ed immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza devono ricevere un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico.”

 

FONTE: PUNTO SICURO

La vicenda

La vicenda è relativa ad un fatto accaduto  il giorno 15 maggio del 2008 quando un dipendente della società XXX S.r.l. – di cui era amministratrice unica la ricorrente – quale addetto al controllo ed alla pulizia dell’impianto di trattamento dei rifiuti installato sul luogo di lavoro, per rimuovere un pezzo di metallo incastrato tra i cingoli di uno dei nastri trasportatori, infilò il braccio destro tra le parti in movimento della macchina, […]

Cassazione: la presenza in cantiere del coordinatore per l’esecuzione

Ha effettuato in questa sentenza la Corte di Cassazione una interessante e completa disamina degli obblighi e delle funzioni che un coordinatore per l’esecuzione deve compiere in un cantiere temporaneo o mobile e – con riferimento alle diverse posizioni che la stessa Corte ha assunto in precedenti sue espressioni in merito alla presenza di tale figura in cantiere, ora richiesta assidua e continua ed ora ritenuta non necessaria “momento per momento” per l’effettuazione dei controlli che sono invece demandati ad altre figure quali il datore di lavoro, il dirigente o il preposto – ha suggerito una modalità perché il coordinatore per l‘esecuzione stesso adempia correttamente all’obbligo che il legislatore gli ha assegnato di verificare la regolare attuazione dei piani di sicurezza  e di verificare l’applicazione delle misure di prevenzione in essi previste. […]

Come noto, nel 2008 il Testo Unico con l’introduzione dell’articolo 299 ha codificato in una norma di legge il principio di effettività – coniato e da sempre applicato dalla giurisprudenza – con specifico riferimento ai ruoli di datore di lavoro, dirigente e preposto.

In particolare, l’art.299 del D.Lgs. 81/08 (“Esercizio di fatto di poteri direttivi”) prevede che “le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e) [datore di lavoro, dirigente e preposto, n.d.r.] gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti.”

[…]

L’imprenditore è gravato dall’obbligo di verificare il rispetto effettivo nelle norme antinfortunistiche ricorrendo anche a sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori che non si adeguino in concreto alle disposizioni prevenzionali.

Il principio emanato dalla Corte di Cassazione in questa sentenza si riferisce alla mancata verifica da parte del datore di lavoro della idoneità dei dispositivi di protezione  individuale forniti al lavoratore ma si applica in realtà a tutti i presidi antinfortunistici messi a disposizione dei lavoratori stessi. L’imprenditore, ha sostenuto in essa la suprema Corte, è gravato dall’obbligo di verificare il rispetto effettivo nelle norme antinfortunistiche ricorrendo, se del caso, anche a sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori che non si adeguano in concreto alle disposizioni prevenzionali. La nozione di idoneità del dispositivi di protezione individuale di cui all’art. 18 comma 1 lettera d) del D. Lgs. n. 81/2008 implica infatti, ha precisato la Corte di Cassazione, l’esercizio di una costante verifica  da parte del datore di lavoro, in collaborazione con il lavoratore,  relativa allo stato di usura e di effettivo impiego degli stessi dispositivi antinfortunistici. […]

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