Una sentenza questa della Corte di Cassazione che fa riferimento all’ obbligo da parte del datore di lavoro di formare adeguatamente i lavoratori nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L’attività di formazione dei lavoratori, ha infatti precisato la suprema Corte, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. Il suo apprendimento di fatto e la sua esperienza non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno fatte nelle modalità indicate dalla legge.
Il fatto e l’iter giudiziario
Il Tribunale ha dichiarato il datore di lavoro e un lavoratore di un’azienda responsabili del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione di norme in materia di infortuni sul lavoro in relazione alla morte di un altro lavoratore, fratello del secondo imputato, deceduto per le gravi lesioni riportate a seguito dell’abbattimento di un albero (un abete bianco alto circa 26 metri) che lo ha investito nel corso delle operazioni di diradamento di un bosco che i due fratelli stavano svolgendo, alle dipendenze dell’impresa della quale l’altra imputato era legale rappresentante. Quest’ultima è stato, inoltre, ritenuta responsabile anche delle contravvenzioni in materia di infortuni sul lavoro.
Il giudice di primo grado ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati sulla base della perizia svolta in sede di incidente probatorio, delle consulenze tecniche del C.T. eseguite su incarico del P.M. e dai periti di parte, che, sostanzialmente, avevano ricostruito in modo conforme il verificarsi del sinistro, nonché sulla base della documentazione acquisita e delle testimonianze assunte in dibattimento. I testimoni di polizia giudiziaria, secondo il Tribunale avevano riferito che fin dai primi accertamenti era emersa evidente l’imperizia del lavoratore imputato che, nel procedere al taglio della pianta, non aveva proceduto secondo la tecnica corretta, aveva utilizzato una motosega in pessime condizioni, non aveva predisposto le vie di fuga, non aveva praticato un taglio direzionale nell’albero, così detta cerniera, che consente la caduta controllata della pianta.
Quanto alla posizione del datore di lavoro erano stati individuati diversi profili di colpa per non aver fornito ai dipendenti l’attrezzatura necessaria per l’esecuzione, con le corrette modalità, dei tagli forestali e per l’atterramento delle piante rimaste impigliate, per avere omesso, inoltre, di formare ed informare adeguatamente i dipendenti in particolare sulle distanze di sicurezza tra gli operatori, sui rischi connessi alla presenza di piante impigliate e, infine, per avere omesso di porre in essere una adeguata attività di controllo e vigilanza del cantiere, vigilanza che avrebbe consentito di rilevare la condizione di pericolo che si era venuta a determinare e di intervenire per scongiurare i rischi esistenti.
La Corte d’appello, a seguito del ricorso proposto dai due imputati, ha mandato assolto il lavoratore confermando, invece, l’affermazione di responsabilità del datore di lavoro in ordine alla contestazione di omicidio colposo, ritenendo infondati i motivi posti a base del suo appello e dichiarando l’estinzione per intervenuta prescrizione dei reati contravvenzionali.
In particolare, quanto alla assoluzione del lavoratore secondo la sentenza di primo grado, l’evento letale sarebbe stato provocato dalla caduta diretta di una pianta di abete che l’imputato stava tagliando, mentre la Corte d’appello ha ritenuto che gli elementi di prova acquisiti non potevano essere considerati tali da escludere un ragionevole margine di incertezza e, quindi, che non si potesse escludere che la morte del lavoratore infortunato fosse stata determinata dalla caduta improvvisa di un albero precedentemente tagliato e rimasto sospeso perché imbrigliato tra gli altri circostanti (il lavoratore imputato aveva sostenuto che l’albero che era caduto sul fratello fosse stato tagliato in precedenza dallo stesso infortunato e fosse rimasto impigliato nella chioma degli alberi vicini). Sulla base di questa differente ed alternativa ricostruzione del fatto la Corte di Appello aveva ha assolto il lavoratore imputato per insufficienza di prove a suo carico e aveva, invece, ritenuto che l’incertezza sulla dinamica dell’incidente accaduto fosse indifferente all’accertamento della responsabilità del datore di lavoro.
Il ricorso in cassazione e le motivazioni
Il datore di lavoro ha ricorso per cassazione adducendo delle motivazioni. Con riferimento in particolare alla colpa allo stesso addebitata e cioè la ritenuta genericità del documento di valutazione dei rischi da esso predisposto lo stesso ha sottolineato di non essere obbligata ex lege a redigere tale documento poiché al tempo del tragico infortunio aveva soltanto cinque dipendenti assunti regolarmente, il che significava che l’azienda rientrava in quella particolare categoria esentata dall’art. 4 comma 11 del D. Lgs n. 626/94, in vigore all’epoca dei fatti, dal redigere il DVR essendo, invece, unicamente tenuto ad effettuare una autocertificazione della valutazione dei rischi e un adempimento degli obblighi ad essa correlati. Per cui, sulla base di tale considerazione, era del tutto erroneo, secondo il ricorrente, attribuire un coefficiente di colpa specifica alla sua condotta sulla base della genericità di un documento che quella particolare categoria di datore di lavoro non era tenuto a redigere, sviluppare e conservare.
Quanto all’addebito consistito nella mancata formazione ed informazione dei dipendenti sui rischi specifici derivanti dal taglio di alberi, il ricorrente aveva rilevato un altro vizio della motivazione per contraddittorietà essendo stato dimostrato che gli obblighi di informazione del datore di lavoro erano stati assolti, e ha fatto osservare, altresì, che anche nel caso in cui si fosse voluto ritenere il contrario, non si sarebbe potuto fondatamente ritenere la sussistenza di un nesso eziologico fra l’omissione colposa ed il decesso del lavoratore. Trattandosi di rischio non preciso, è la stessa giurisprudenza di legittimità, ha sostenuto, ad affermare che in tal caso ricorre l’affidamento del datore di lavoro sul comportamento diligente del lavoratore.
Quanto alla contestata culpa in vigilando, la Corte di Appello, secondo la ricorrente, è caduta parimenti in errore essendo stato sufficiente fare una corretta applicazione dei principi espressi dalla Corte di legittimità con riferimento ai rapporti tra datore di lavoro e delegato alla sicurezza, sulla base dei quali si può affermare che, in materia di infortuni sul lavoro, l’obbligo di prevenzione, assicurazione e sorveglianza del datore di lavoro non impongono al datore il controllo momento per momento delle modalità di svolgimento delle lavorazioni.
Le decisioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati i motivi posti alla base del ricorso che ha pertanto rigettato. Con riferimento in particolare alla contestata mancata valutazione dei rischi che ha portato all’infortunio, la suprema Corte ha fatto presente che il rischio di cui trattasi non era stato assolutamente previsto neanche da quella autocertificazione alla quale ha fatto riferimento il datore di lavoro. Tale documento, infatti, è risultato essere “carente in molti suoi aspetti” non avendo analizzato elementi fondamentali delle operazioni di taglio e di esbosco. Fra gli elementi non presi in considerazione c’è stata la mancata valutazione del rischio specifico di intercettazione delle piante in caduta da parte di altre piante dalla cui analisi sarebbero potute scaturire delle misure organizzative del cantiere tali da prevenire e gestire eventuali criticità. In definitiva, come rilevato dalla Corte di Appello, non esistevano tassative prescrizioni in materia di sicurezza che fossero state imposte dal datore di lavoro e alla cui costante osservanza i lavoratori fossero stati debitamente addestrati.
Con riferimento poi alla osservazione avanzata dal ricorrente sulla comprovata esperienza del lavoratore infortunato e del fratello imputato come boscaioli di comprovata esperienza pluriennale nel disboscamento di alberi di alto fusto già prima di essere assunti, la Corte di Cassazione ha tratteggiato i contorni ed i contenuti dell’obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Questi, ha infatti sostenuto la Sez. IV, ha l’obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto. A ciò va aggiunto, ha così proseguito, che il D. Lgs. n. 626 del 1994, al quale occorre fare riferimento ratione temporis, all’art. 3, comma 1 lett. s) ha posto la “informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro” tra le misure generali di tutela, distinguendole peraltro dalla diversa ed ulteriore misura generale costituita dalle “istruzioni adeguate ai lavoratori“.
Il profilo normativo dell’attività di formazione che il datore di lavoro deve assicurare, ha così proseguito la suprema Corte, permette di evidenziare il principio secondo il quale “in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l’attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro”.La Corte suprema ha evidenziato altresì che l’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno compiute nella cornice formalizzata prevista dalla legge“.
Nel caso in esame, pertanto, ha così concluso la suprema Corte, la prova dell’assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi data dalla dedotta circostanza che i due fratelli avevano pregresse esperienze per avere esercitato l’attività di taglio di alberi di alto fusto nel loro paese d’origine per cui la decisione assunta dalla Corte di Appello è da considerarsi corretta.
FONTE: PUNTO SICURO